Sul carattere degli abbadenghi e l’avanguardia dell’arte

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di Giovanni Fabbrini

Non è facile parlare del carattere dell’abbadengo: molto è stato fatto con un articolo che descrive bene alcune caratteristiche peculiari: Il Generale Cantore di Ida Porcelloni “la prima imprenditrice dell’Amiata”. La sola tigna tuttavia non è abbastanza se davvero vogliamo capire perché il badengo è diverso dagli altri italiani e perché deve essere contento o non contento di esserlo! Il badengo è infatti isolato, ma a differenza di tanti isolati non è avaro: non è avaro di sentimenti e probabilmente è meno avaro della media italiana. Quando non si è avari urge l’esigenza di comunicare per rompere il proprio isolamento, e se la cultura e la storia locale non è proprio quella di Firenze e di Siena, se il dialetto non è precisamente il top della raffinatezza, è anche vero che nel novecento i badenghi sono stati capaci di distinguersi dagli abitanti della Val di Chiana e della Val d’Orcia, dagli stessi senesi, molto spesso in positivo.

Qualcosa che sicuramente aiuta, da un lato strutturando le identità di chi la ascolta e pratica, dall’altro donando un linguaggio comune che non conosce specificità dialettali di nessun tipo, è la musica. Dai tempi in cui il corso di musica era il lusso concesso dalla dirigenza tedesca alle maestranze operaie della Monte Amiata, passando per la musicata e musicale contestazione giovanile degli anni ’60, per arrivare ai ricordi degli anni Novanta. Un’Abbadia turistica ma non ingessata, con un tessuto sociale vivido, dove i romani si sentivano a casa e dove gli altri toscani venivano molto spesso non a rilassarsi lontani dalla confusione, come fanno oggi, ma a farla e aumentarla.

La musica è sempre stata lo sfondo, uno sfondo indispensabile. Non la musica popolare o caratteristica, ma il rock espressione della società industriale, delle sue speranze e dei suoi disagi; oppure la musica classica, per le orecchie più abituate. La formazione classica di molti musicisti locali, orientata al canto, al pianoforte o ai fiati, ha creato un humus sempre aperto alla sperimentazione che ha raggiunto il suo apice quando ha evitato di ripiegarsi in un passatempo piccolo borghese. Non parliamo poi della batteria che nel rock è la regina mentre nell’orchestra classica è un nano o della chitarra che è la vera regina della musica di strada. Anche solo pensando all’infanzia e all’adolescenza di chi è nato negli anni ’80, una delle prime cose che vengono in mente sono le sottoculture urbane importate dall’Inghilterra e dagli States.

La musica può fare molto per rompere l’isolamento e per toglierci l’attuale status di confinati in un mondo bucolico che non è mai stato il nostro: comunicare al resto del mondo in un terreno logico e matematico come quello dello spartito, che è però base della creatività dura e pura, è qualcosa che ha un valore intrinseco, senza nulla togliere alla cinta senese e al pecorino. Per non andare fuori tempo insomma, meglio non perdere di vista l’avanguardia dell’arte e continuare a credere e a investire nel credo che ci ha avvicinati e resi se non celebri, decisamente rispettabili al resto d’Italia.

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Copertina: Renato Guerrini

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