Sponz Fest, le conclusioni di Vinicio Capossela: “Non possiamo che ringraziare il cielo”
—lP—
di Vinicio Capossela
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Ora che tutto è finito, che la luna ha cominciato il suo calare, la Superluna di questo straordinario, ostinato plenilunio incantato, non possiamo che ringraziare il cielo.
Sette notti limpide in una terra che sa tenere il suolo separato dal cielo, che rinnova a ogni alba il primo giorno. Sette giorni assolati, di caldo da essiccatore, calcinati dal vento. Gli elementi hanno voluto benevolmente sostenere questi giorni per percorrere sentieri di muli e di miti. A ognuno hanno offerto un bel raglio di luna per illuminare tutti in luce diversa: la luce dell’immaginazione e del sacro “Inutile”…
L’ultima luna si è fatta ammirare dal suo luogo più prossimo…la piana arcaica che sta sulla sommità di Cairano. Quella zanna che emerge dalla valle e si eleva in alto come un Olimpo rupestre, a cui i mortali hanno potuto ascendere per contemplare gli dei. E gli dei c’erano a partire dal principale. Zeus era lì, con la voce del suo pastore: Psarantonis, dal monte Psiloritis, dove il tonitruante è stato allattato…la sua lira che ha il suono del lampo e del vento…la sua voce senza tempo…stava lì, circondato dai suoi figli, Zeus: Niki “Afroditi” Xilouris, la sua voce d’acqua che ride sulle pietre, alla sinistra e Labis “Efesto” che forgiava le corde dell’uod nella lava di antichi vulcani, come il Vultur che ci stava alle spalle.
Su quella sommità stanno sepolture antichissime, tombe a fossa della civiltà di Oliveto- Cairano, di cui ci ha parlato al tramonto l’archeologo Galasso. E in quel dirupo la mitologia locale vuole che alberghino i “Siensi”, gli ariosteschi senni dell’intelletto, in forma e in ronzio di mosconi. Su quella radura il comune ha allestito un teatro di paglia che ha fatto accomodare i convenuti, festosamente accompagnati fino lì dalla fanfara macedone di Kocani.
La vista abbracciava la valle intera, dalle arroccate case del “paese dei coppoloni” alle contrade di Occhino, Andretta, Formicoso, e più oltre il paese dell’Eco, quello dei Santandriani, degli annebbiati di Compsa, e oltre ancora l’orizzonte.
Su tutto una luna gigante, luminosa, partorita dal bosco, tinta di rosso e poi bianca. Da quella luna ci ha parlato in collegamento telefonico lo scienziato Piergiorgio Odifreddi.
Ci ha parlato di Galileo e Keplero, di Oliver Sachs e di Pitagora. Ci ha parlato della terra vista dalla luna. Questa terra che i seleniti vedono a colori, e non in bianco e nero come noi vediamo la luna. E per un momento ci siamo sentiti osservati, là su quel piccolo erpete di luci appeso alla notte, mentre provavamo a sollevarci sulle ali dell’immaginazione e del racconto, appesi alla trebbiatrice volante, portata lì sopra con impresa degna di Fitzacarraldo. E come tale appariva il “tenente” Dum, mentre ci pedalava sulla testa. Leggere “Il paese dei Coppoloni” da quel luogo è stata un’emozione che mi ha tolto, a dispetto, la voce.
Saliva a intermittenza dalla gola, quasi a ricordare la fallacità del racconto, la fragilità del ricordo.
E in quella fragilità per me si è compiuta l’opera.
Questa folle opera di “ri-creazione” del mondo offerta a chi volesse farne parte per una settimana. Più che un festival questa è stata un’opera collettiva. Una cornice in cui ognuno ha messo la sua pennellata di fieno.
C’è un sottile confine che oltrepassiamo ogni volta che raccontiamo e trasferiamo il reale nella dimensione del mito. Io l’ho oltrepassato salendo su quella trebbiatrice, con ali di corvo, leggendo il racconto con il tenente Dum sulla testa alle spalle.
Da lì ho potuto riconoscere il mio stesso racconto.
Sulla luna non si è potuti andare, era troppo pura. Si è dovuti tornare a terra…Dove a ogni mancanza ci si può abituare… Battezzare i fogli alla fonte prima di disperdersi nel baccanale. E così è stato. Sotto la Fanfara Kocani suonava infuriata, come quando cominciò la storia, 17 anni fa.
Grazie a tutti dell’abbraccio che mi ha impedito di fracassarmi al suolo.
E grazie, davvero, di cuore…al cielo.
L’ultima luna si è fatta ammirare dal suo luogo più prossimo…la piana arcaica che sta sulla sommità di Cairano. Quella zanna che emerge dalla valle e si eleva in alto come un Olimpo rupestre, a cui i mortali hanno potuto ascendere per contemplare gli dei. E gli dei c’erano a partire dal principale. Zeus era lì, con la voce del suo pastore: Psarantonis, dal monte Psiloritis, dove il tonitruante è stato allattato…la sua lira che ha il suono del lampo e del vento…la sua voce senza tempo…stava lì, circondato dai suoi figli, Zeus: Niki “Afroditi” Xilouris, la sua voce d’acqua che ride sulle pietre, alla sinistra e Labis “Efesto” che forgiava le corde dell’uod nella lava di antichi vulcani, come il Vultur che ci stava alle spalle.
Su quella sommità stanno sepolture antichissime, tombe a fossa della civiltà di Oliveto- Cairano, di cui ci ha parlato al tramonto l’archeologo Galasso. E in quel dirupo la mitologia locale vuole che alberghino i “Siensi”, gli ariosteschi senni dell’intelletto, in forma e in ronzio di mosconi. Su quella radura il comune ha allestito un teatro di paglia che ha fatto accomodare i convenuti, festosamente accompagnati fino lì dalla fanfara macedone di Kocani.
La vista abbracciava la valle intera, dalle arroccate case del “paese dei coppoloni” alle contrade di Occhino, Andretta, Formicoso, e più oltre il paese dell’Eco, quello dei Santandriani, degli annebbiati di Compsa, e oltre ancora l’orizzonte.
Su tutto una luna gigante, luminosa, partorita dal bosco, tinta di rosso e poi bianca. Da quella luna ci ha parlato in collegamento telefonico lo scienziato Piergiorgio Odifreddi.
Ci ha parlato di Galileo e Keplero, di Oliver Sachs e di Pitagora. Ci ha parlato della terra vista dalla luna. Questa terra che i seleniti vedono a colori, e non in bianco e nero come noi vediamo la luna. E per un momento ci siamo sentiti osservati, là su quel piccolo erpete di luci appeso alla notte, mentre provavamo a sollevarci sulle ali dell’immaginazione e del racconto, appesi alla trebbiatrice volante, portata lì sopra con impresa degna di Fitzacarraldo. E come tale appariva il “tenente” Dum, mentre ci pedalava sulla testa. Leggere “Il paese dei Coppoloni” da quel luogo è stata un’emozione che mi ha tolto, a dispetto, la voce.
Saliva a intermittenza dalla gola, quasi a ricordare la fallacità del racconto, la fragilità del ricordo.
E in quella fragilità per me si è compiuta l’opera.
Questa folle opera di “ri-creazione” del mondo offerta a chi volesse farne parte per una settimana. Più che un festival questa è stata un’opera collettiva. Una cornice in cui ognuno ha messo la sua pennellata di fieno.
C’è un sottile confine che oltrepassiamo ogni volta che raccontiamo e trasferiamo il reale nella dimensione del mito. Io l’ho oltrepassato salendo su quella trebbiatrice, con ali di corvo, leggendo il racconto con il tenente Dum sulla testa alle spalle.
Da lì ho potuto riconoscere il mio stesso racconto.
Sulla luna non si è potuti andare, era troppo pura. Si è dovuti tornare a terra…Dove a ogni mancanza ci si può abituare… Battezzare i fogli alla fonte prima di disperdersi nel baccanale. E così è stato. Sotto la Fanfara Kocani suonava infuriata, come quando cominciò la storia, 17 anni fa.
Grazie a tutti dell’abbraccio che mi ha impedito di fracassarmi al suolo.
E grazie, davvero, di cuore…al cielo.
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