Ma quale Révolution française? Quella buona è la Glorious Revolution
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di Giovanni Fabbrini
Di fronte all’attuale trionfo del civismo sia inglese che americano, pregno di uno spirito per metà patriottico e per metà religioso,val la pena approfondire le differenze tra Rivoluzione Francese e Glorious Revolution. Nel mondo anglofono i simboli dell’ordine politico sono in qualche modo sacri o del tutto parallelamente le istituzioni sacre si denotano di aggettivi come “nazionale”. Non tutti sanno che il Campidoglio di Washington è un tempio: ha una cupola centrale ed è perfettamente orientato verso Est, come le vecchie cattedrali. E parimenti non tutti sanno che la chiesa anglicana è chiamata dagli inglesi National Church, il capo di stato, la Regina, è anche capo della chiesa. A queste caratteristiche si unisce un senso di libertà vissuta nella responsabilità; la pappardella tutta mediterranea per cui “la libertà mia finisce dove comincia la tua” lì è sostituita da un più attivo e fruttifero “la libertà cresce insieme alla responsabilità”. I paesi napoleonici, quelli che hanno subito maggiormente l’influsso “illuminista” derivato dalla rivoluzione francese, non hanno avuto la riforma protestante e non hanno mai creduto nella proprietà come mezzo di emancipazione e di riscatto. Male! La rivoluzione buona è quella inglese, la francese ha solo sostituito all’assoluto politico dell’antico regime l’assoluto politico del giacobinismo.
Non si può vivere nel disinteresse, dominati da grandi istituzioni che non siano a misura d’uomo, appoggiandosi a partiti costruiti a imitazione bislacca della Chiesa Cattolica, con sezioni di parrocchia laiche e capi spiritual-politici che guidano il popolo. Dove oltremanica la sete di dubbio del cittadino ha sfogato nella fortuna delle chiese protestanti, lasciando aperti i canali alla conoscenza del Vangelo, da noi si è avuta una apostasia di massa o un altrettanto pericolosa proiezione di un sentimento religioso in un credo politico, siamo ancora memori della dogmatica marxista e della fede maoista. Dove oltremanica si è creduto nel riscatto sociale tramite la proprietà e il lavoro da noi l’unico riscatto possibile è stato quello che ci hanno concesso i sindacati a seguito di accordi vantaggiosi coi grandi proprietari sotto l’immancabile patrocinio dello Stato. Siamo perciò abituati a un particolare tipo di lavoro, deresponsabilizzato, e il cui guadagno è scollegato dall’impegno ma legatissimo alle pressioni politiche della struttura a cui si fa riferimento, il partito o il sindacato, e alla sottomissione che verso di essa si mostra, alla faccia dell’emancipazione e della cultura moderna. Con gli anni ’80 tutto cambia, si potrebbe dire. L’Italia esce dalla stagflazione con i debiti e le privatizzazioni, le compagnie a compartecipazione pubblica, tenute in piedi senza profitto per occupare tutti, non ci sono più o di certo non sono più la norma. Lo stato dal canto suo assume molto meno di venti o trent’anni fa. Anche sta volta, considerando l’alto livello di ingerenza pubblica nell’economia raggiunto negli anni ’70 con Carter e col corporativismo inglese, il cambiamento in senso liberista è stato voluto da Reagan e dalla Tatcher e subìto dalle nostre economie. I governi democratici e laburisti che si sono susseguiti non hanno invertito granché la rotta; ognuno deciderà secondo le proprie inclinazioni ma il futuro non può essere affrontato, nemmeno da noi, con schemi lontani da quelli del liberalismo e dell’illuminismo anglosassone, con buona pace della tomba di Robespierre.
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