Letture – “Il maschio selvatico” di Claudio Risé

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di Don Marco Belleri

Per quanto abbia fatto di tutto per allontanare i lettori con una grafica piuttosto discutibile, lo psicologo milanese Caludio Risé si è comunque reso degno di nota: come è messo il maschio, che fine farà il maschio, ma soprattutto chi è il maschio? E’ lo stesso autore a spiegare che far uscire un libro di questo tipo non è stato facile: la strada maestra a livello commerciale avrebbe consistito nello scrivere un trattatello sulla sessualità maschile, sull’organo fallico e sugli aspetti più materiali legati alla vita di coppia. Invece Risè ha scelto di percorrere una strada più difficile, attaccando al cuore l’ovatta della nostra società, che nell’esaltazione della pulizia, delle buone maniere e della correttezza politica rischia di soffocare, anzi ha già soffocato il gusto per l’essenziale e la durezza che caratterizzerebbero gli autentici uomini.

Avendo in cura come psicologo uomini della Milano bene da diversi anni, l’autore ne ha sentite di cotte e di crude. Gente che sogna una baita, un vecchio bastone da montagna, un arredamento confortevole: in questo scenario di intimità con se stessi arrivano gli amici, che prima suonano il campanello, poi entrano, seguiti da altri amici si moltiplicano fino a rompere le pareti, a trasformare la stessa casa in un prato dall’atmosfera tropicale. E poi ancora: un giovane ossessionato negli incubi dalla figura del lupo. Chi è il lupo? Il lupo è l’istinto represso, definizione banale ma efficace. E’ così che si era ridotto un paziente abituato a brevi storie sentimentali con le modelle, che considerava a torto o a ragione vuote e stupide, ma che gli davano un prestigio sociale maggiore. Cambiando partner, finendo a letto con l’amica “bruttona” ma attraente, i lupi sono scomparsi. Hanno avuto la loro gallinella inconscia da sbranare, sia detto in modo metaforico. Bisogna per forza arrivare a sentire questi campanelli d’allarme prima di rinsavire?

A quanto pare la situazione dell’uomo occidentale oggi è disperata. Il naturale passaggio iniziatico, quello che si compie nella foresta, viene trascurato in nome di falsi ideali di correttezza sociale, pseudo praticità e pulizia. In praticamente tutte le culture i maschi sono iniziati nella natura. Gli stessi boy scout hanno non a caso un lungo rito che si compie nel bosco. Il mito della foresta sopravvive in alcune sottoculture specialmente del centro e del nord Europa, dove la wildness è decisamente più radicata. Oggi si guarda spesso alla natura ma è poco frequente avere un confronto sano con essa: si va dalle escursioni di gruppo ai rave; per non parlare poi della concezione hippie che invece di ricercare un’esperienza nella natura vuole che sia la natura a formare l’uomo. In ogni caso l’esperienza intimistica nel contatto con la selva viene in un certo modo tradita. Certo i giovani a cui pensa Risé sono i milanesi del centro, ma non bisogna escludere che un bel carico di superficialità sia in arrivo anche da noi, come del resto qualcuno avrà notato, l’idea di imboscarsi per fare sesso, di imboscarsi per drogarsi… stanno soffocando il concetto di imboscarsi per imboscarsi.

Affrontare la selva solo per uscirne (più) vivi, senza né meriti sportivi né pretese ragioni strumentali.  La madre prima, la cavalleria poi (che sia un partito, una corporazione, un sindacato o un’associazione di qualsiasi tipo), arrivano a impedire a chi vuole crescere senza costrizioni di farlo; a meno che non viva la vicenda di Parsifal, il cavaliere selvaggio e poco incline alle formalità di corte, descritto nella saga di Re Artù. Sul piano metaforico il confronto con la natura è quello con la realtà, fatta di rischio, dolore e fatica. La madre non manda mai a cuor leggero il figlio nella selva. Ai cortigiani parimenti la natura non serve, non la vogliono affrontare, non è nel loro spirito. E così si passa nella vita concreta dalla torre d’avorio della scuola a quella dell’azienda senza aver capito niente del mondo. Perché la selva fa paura.

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