Cucina. Intervista a Fabio Picchi, re incontrastato della toscanità «Non amo i cuochi d’artificio, preferisco i fuochi d’artificio»
di Ilaria Martini, Marta Pertici e Giorgia Del Segato
Cinese, giapponese, greco, spagnolo, indiano, messicano e chi più ne ha più ne metta. Esplode il boom dei ristoranti etnici ed esotici che spuntano come funghi alimentando il mito della cucina internazionale in Italia. L’obiettivo è mangiare molto e spendere il giusto. Di cucina e di storia dell’alimentazione si parla molto, specialmente da quando il fenomeno mediatico conosciuto come show cooking ci propina quotidianamente parole “mordi e fuggi” come cake design, finger-food, brunch, sushi e kebab. Potrebbe sembrare che l’italiano abbia perso il suo fascino tra i fornelli. E se la lingua nazionale pare in difficoltà, il vernacolo culinario come se la passa? Il nostro dialetto toscano è ancora attuale nella lingua gastronomica italiana ed estera? Sicuramente esiste ancora chi porta avanti la strenua battaglia per la salvaguardia e la promozione dei prodotti del territorio italiano. Abbiamo chiesto come si coniugano localismo e globalizzazione in cucina ad uno chef d’eccezione: Fabio Picchi, classe 1954, verace cuoco fiorentino, famoso per le sue apparizioni nella rubrica del Tg2 Eat Parade; forse il più degno erede della tradizione toscana in cucina, quella semplice e pura.
Picchi è un tipo sulle righe, che denigra ogni accostamento con tutto ciò che non è italiano o che non invochi l’utilizzo di un buon olio d’oliva, l’ingrediente speciale dei suoi capolavori. Tra i suoi cavalli di battaglia un’insalata di trippa soprannominata “l’antinfluenzale”. Buona lettura!
Come riesce a veicolare la tradizione culinaria attraverso le ricette? Usa espressioni dialettali?
Parlare è un valore intrinseco e non aggiunto. Non è una scelta razionale ma un meccanismo connaturato all’appartenenza antropologica ad un’area. Capisco che si possa decidere se esprimersi in dialetto o in italiano ma io, in quanto fiorentino, non posso dire «adesso parlo toscano». Essendo il fiorentino l’italiano, io spontaneamente non parlo un dialetto ma l’italiano.
Prendendo spunto dal suo vocabolario: se dovesse elencare cinque parole a cui si sente particolarmente legato – e che rappresentano al meglio il valore della toscanità nella gastronomia – quali sceglierebbe?
Un ho gnente (non ho niente, ndr), olio d’oliva, cipolla, nipitella (che i toscani devono conoscere per forza e i romani omologano alla mentuccia) e infine ramaiòlo.
Qual è la sua posizione in merito al processo di mediatizzazione della cultura culinaria?
Questa domanda ha già insita una risposta e io non posso far altro che annuire. Stiamo parlando di cuochi d’artificio, che scintillano per pochi attimi e poi esplodono. Non si può parlare di cucina per quel che riguarda la televisione, si parla al massimo di cartoline di cucina. Per rendere meglio l’idea, il dipinto della Cena di Leonardo è ben diverso dall’azione fisica nel suo svolgersi. Nel mezzo tecnico televisivo non si racconta la cucina in maniera veritiera, se non in casi veramente rari: uno di questi è il mio. Ci sono anche cartoline molto ridondanti, con molti merletti, ma sono oggetti di scambio commerciale. Un conto è il cuoco d’artificio, altra cosa è nascere e subire la responsabilità amorosa di qualcuno che ci dà del cibo: questa è una cosa seria e potente! Si nasce e si respira e se non ci fosse chi ci dà nutrimento non saremmo nemmeno qui a parlare. Il gesto del dare del cibo che in evoluzione diventa cucinare e cucinato fa si che la materia si trasformi in altra materia, cioè in noi stessi. In questo modo riusciamo ad elevare anche lo spirito: attraverso le risultanze emotive che derivano dallo sgranocchiare un melograno, dal mordere un popone, abbracciare una fidanzata o accarezzare un cagnolino, leggere un libro o andare al cinema. Perché continuiamo a parlare bene o male della televisione? A me piacciono i fuochi d’artificio, se mi capita li guardo, ma non tutte le sere. Preferisco parlare dell’Ersilia (una delle sue aiutanti in cucina, ndr) che coltiva, sbuccia, trita le cipolle, porta il soffritto al color oro e poi ci aggiunge il macinato o i funghi tritati (porcini possibilmente) per farci un sugo. Questo mi pare interessante.
Nel suo blog su Il Fatto si definisce «grande lettore e ascoltatore di ciò che capita nei mercati, amico di contadini, norcini e pescatori, teatranti, cantanti e musicisti». Quale aspetto della toscanità ruba da questi preziosi incontri?
E’ come chiedere ad un tessitore che aiuto gli danno i bachi da seta. E’ la materia con cui elaboro e tesso le mie stoffe. Non potrei mai vivere senza di loro. Il rapporto con un macellaio, un pescatore o un contadino è un rapporto d’amore, si litiga, si discute, è sempre diverso.
Se la cucina fosse per lei la casa dei ricordi, a quali espressioni, termini, piatti della sua infanzia e giovinezza si sente di dover dire grazie? Ce ne spieghi il motivo e cosa le evocano.
C’è questa falsa devozione intorno alla cucina delle mamme, delle zie e delle nonne. Per me non è retorica, è memoria storica, è il propellente per andare nel futuro: non si arriva da nessuna parte se non si costruisce il veicolo, se non gli si dà nutrimento e carburante. Quando mangio da mani altrui riconosco un profondo senso di innamoramento per quello che mi viene offerto. Quel che si è, quel che si è stati, quel che si è mangiato, annusato, masticato, deglutito, si è trasformato in altra materia e fa parte di noi e della risonanza universale che dovrebbe tenerci attenti come un diapason in medesima vibrazione emotiva. Noi tendiamo sempre a distaccarci dalla vibrazione, finendo poi col non capire: consideriamo gli innamoramenti come breve o lunga follia, quando invece sono le intime capacità di stare in risonanza con gli affetti che contano. Questo profondo sentire si percepisce in una riga di un libro, in una canzone, in una poesia, in un film, in un amico con il quale puoi discutere intorno ad un tavolo in una notte che un tempo si diceva fumosa, ma siccome il fumo fa male, diciamo davanti ad un buon tè.
Nell’Italia culinaria di oggi, quale ruolo gioca la cucina toscana? Il dialetto è ancora preservato o è a rischio estinzione? Per dirla in breve, lei che rapporto ha con parole come cupcake, sushi, finger-food, sandwich, vinaigrette o cruditè?
Queste parole mi fanno orrore. Il mercato vende delle parole, c’è chi le compra e chi no. Noi rimaniamo qua, con i nostri cipressi, le nostre vigne, i nostri orti. Sessant’anni fa vedevo i vecchi lavorare gli orti, pensavo che gli anziani sarebbero morti, invece i loro insegnamenti non muoiono mai. La lotta è dura ma noi vinceremo, viva l’olio d’oliva! Ci sono parole, come soffritto, che suggeriscono già l’atto del cuocere una braciola “za-za”, facendole fare “schhh…schh…” nell’olio bollente.
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foto: Fabio Picchi
nb. intervista realizzata e inserita all’interno dell’inchiesta dal titolo “Saperi e sapori toscani: la tradizione da parlare e da gustare”.