Dall’Euphorbia alla pera picciòla, viaggio attraverso le diversità del Monte Amiata
La nostra non è una montagna qualunque; è un antico vulcano isolato e lontano dalle catene montuose ma non distante dal mare. Le sue caratteristiche geomorfologiche e climatiche uniche hanno reso possibile la vita di moltissime specie, soprattutto vegetali, che hanno trovato e trovano su questa altura le condizioni ideali per la propria sopravvivenza. L’Amiata ospita piante dalle esigenze molto diverse tra loro; alcune a vocazione mediterranea, soprattutto nel versante che si affaccia sul mar Tirreno, ed altre decisamente più continentali, prevalentemente nel versante orientale. E’ in corso un monitoraggio della flora amiatina, da parte del botanico A. De Bellis, che ha già superato le 1300 specie, numero abbastanza sorprendente per un’area non vastissima come la nostra. Inoltre si segnalano numerosi endemismi, ovvero specie che assumono caratteristiche peculiari della zona in cui si trovano; ricordiamo su tutti la bellissima Viola etrusca e il Crocus etruscus. Recentemente è stata fatta una scoperta che ha del sensazionale: De Bellis, insieme ai naturalisti Nanni e Bonelli, ha rinvenuto nell’area di Monte Labbro degli esemplari di Euphorbia dai caratteri assolutamente inediti, mai riscontrati in nessun’altra specie dello stesso genere. Dopo accurate analisi svoltesi anche con l’ausilio del microscopio è giunto alla conclusione che si tratta di una specie nuova (evento assai raro al giorno d’oggi) proponendo il nome di Euphorbia amiatina. Ma le sorprese che riserva questa montagna non sono finite. Poco distante dalla vetta dell’Amiata, in un ambiente molto particolare e ristretto vegeta la Lonicera coerulea, un caprifoglio tipico delle zone artiche e delle Alpi che nella nostra penisola (esclusa appunto la catena alpina) veniva considerato assente o incerto. E invece resiste, probabilmente come un relitto glaciale sull’Amiata dove è riuscito a sopravvivere mentre si è estinto altrove. Le specie degne di nota sarebbero ancora molte ed abbiamo citato solo alcune fra le più interessanti, però non possiamo non rammentare, fra quelle arboree, il “pero picciòlo”, pianta esclusiva del comune di Abbadia San Salvatore e dei margini della zona di Vivo D’Orcia i cui frutti, le pere picciòle, sono state nel passato uno dei pochi alimenti della dieta invernale dei badenghi basata quasi esclusivamente sulle castagne. Questa pera badenga ha una maturazione tardiva che avviene in autunno inoltrato, è molto dura e resistente, anche agli attacchi dei patogeni ed è ideale per essere lavorata e cotta; infatti è stata riscoperta in cucina dove sono nate numerose ricette. E’ considerata una antichissima varietà sopravvissuta fino a oggi grazie alla propagazione tramite innesto ad opera della gente di Abbadia. L’aspetto più interessante di questa pianta è probabilmente proprio quello botanico. Infatti dal suo seme non rinasce il selvatico, come avviene per le cultivar o varietà, bensì un individuo con caratteri del tutto simili al pero picciòlo. Questo ci porta a pensare che si tratti di una vera e propria specie, ormai dimenticata, forse estintasi altrove oppure mai classificata. In ogni modo il pero picciòlo rappresenta un simbolo della diversità amiatina, non solo colturale ma anche culturale che se nessuno avesse utilizzato a quest’ora se ne sarebbe persa la memoria. A proposito di memoria a questo punto bisogna ricordarci anche che in montagna vegeta ancora la leggendaria “erba carolingia”, quella che guarì l’esercito di Carlo Magno dalla peste quando egli si trovò a soggiornare nel nostro monastero. La leggenda dell’erba carolingia (il cui nome scientifico è Carlina acanthifolia) era molto famosa nel medioevo ma anche più tardi tanto che nel ’700 giunse alle orecchie del più grande classificatore di specie della storia, Carlo Linneo, che diede il nome di Carlina a un intero genere di piante. Anche se ci sono varie versioni di questa leggenda che è stata ambientata in vari luoghi abbiamo dalla nostra parte il fatto che Carlo Magno visitò realmente, nell’anno 800, la nostra abbazia e prima della sua partenza volle firmare un diploma per conferirle vastissime terre e possedimenti, poteri e privilegi. Che lo abbia fatto anche come ringraziamento ai monaci benedettini per l’aver salvato i suoi soldati dalla terribile epidemia? Anche il Papa Pio II, in soggiorno sull’Amiata nel 1462, ebbe a dire qualcosa a proposito di questa miracolosa erba: <<Ascendi, o viatore, la strada che al monte conduce, ed ivi troverai l’erba di Carlo, che salvò il suo esercito dalla peste, e che guarisce da ogni infermità>>. Tutto il patrimonio di conoscenze, modi di dire, storie, leggende, tradizioni e utilizzi legati alle piante o ai luoghi della montagna sta per essere perso per strada ed è anche per questo che non riusciamo più ad avere la confidenza con il bosco che ci contraddistingueva fino a non tantissimo tempo fa, rimanendo spesso incapaci di riconoscere nemmeno le azioni più distruttive che spesso ci vengono spacciate per utili e benefiche. L’unico modo forse per correre ai ripari è conservare e trasmettere soprattutto nelle scuole quel che è rimasto della nostra diversità e identità con la speranza che l’albero quasi secco riprenda vigore. La conoscenza della terra di origine è l’unico mezzo per agire efficacemente ed eventualmente combattere nel suo interesse e nel proprio, non nell’interesse di altri come è già avvenuto e sta avvenendo qua da noi da ormai molto, troppo, tempo. Antonio Pacini
Bene, Antonio, ce ne fossero molti a pensarla come te!