Alyan.

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—lP—

di Chiara de Franceschi

Quando un’immagine è più forte di mille parole. Citando Alessandro Baricco “a volte le parole non bastano. E allora servono i colori. E le forme. E le note. E le emozioni”

Ma stavolta non ci sono  i colori, non ci sono le note; o forse sì, ma non nel senso in cui le intendiamo. C’è la foto di Alyan questa volta, tre anni appena, disteso sulla spiaggia, annegato durante il fatidico viaggio della speranza. E nessuno può rimanere indifferente. Senza voler cadere in critiche o facili retoriche, sappiamo che ci sono immagini che sono riuscite a scuotere le coscienze, che ci entrano dentro come un treno, che non siamo più capaci di cancellare.

Perché viviamo in un mondo in cui in ogni momento tutti quanti possiamo vedere tutto, dove si dibatte se sia giusto o no mostrarle, certe immagini. Forse sì, è giusto, e non per quella sorta di piacere sadico che proviamo a vedere morte e distruzione, non per quella logica dell’audience per cui “ciò che è violento fa impennare gli ascolti.” Certe immagini forse vanno mostrate perché è giusto sapere. Perché ci aiutino a capire, a comprendere prima di giudicare, a mostrarci ciò che succede davvero nel mondo, a non farci girare la testa dall’altra parte, a non appellarci al sacrosanto “occhio non vede, cuore non duole”. Ciò che non vediamo non può ferirci. E spesso, forse troppo spesso, preferiamo fare così. Ma c’è un bambino morto su una spiaggia oggi, vestito come ognuno dei nostri bambini. E i bambini non ci lasciano indifferenti. Ci sentiamo tutti colpiti nel profondo, invochiamo solidarietà e aiuti umanitari, gridiamo a gran voce “stop alle stragi d’innocenti”.

Ma quel bambino non è altro che uno dei tantissimi che muoiono ogni giorno, con o senza i loro genitori, andando alla ricerca di una vita migliore, lasciandosi alle spalle guerre e distruzione. La differenza sta nel fatto che di Alyan abbiamo una foto, forse la più triste che ci possa essere, mentre delle altre migliaia di persone non abbiamo volti, non sappiamo chi sono, li consideriamo numeri, li definiamo “troppi”. Alyan non cambierà le cose, la sua morte andrà ad aggiungersi alla lista infinita di disperati che scappando dalla morte, troppo spesso sembrano andarle ironicamente incontro. Forse diventerà uno dei simboli dell’emergenza che stiamo vivendo, di quella che è stata definita come “una delle più grandi migrazioni del dopoguerra”; forse un po’ la coscienza ce la scuoterà, come ce l’hanno scossa  la “ragazza Afghana” di Steve McCurry, o l’ “Attacco con il Napalm in Vietnam” di Nick Ut. Forse.

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