Castagni millenari e cattedrali di faggi. Del perché l’Amiata merita l’Unesco (parte III)

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La vita dei badenghi è stata fin dalle origini inscindibile dai boschi che avvolgono il paese. La nostra cultura locale è il riflesso della vita a contatto con la natura, di vicende legate alla foresta e ai campi. Naturalmente c’è anche il periodo minerario ad averci condizionato ma la storia e l’identità di Abbadia hanno iniziato a formarsi secoli e secoli prima. Il legame profondo con il bosco ci ha accompagnati fin dalla nascita poiché è in seguito alla miracolosa apparizione di Cristo (proprio sopra a un albero) che è iniziata la gloriosa storia del paese. Ancora oggi la rappresentazione di tale prodigio è l’emblema del Comune, perciò gli alberi hanno sempre avuto un ruolo centrale nella comunità (nel nostro simbolo compare un castagno).

A ragion del vero il Salvatore sarebbe apparso su un abete ma forse è stato scelto il castagno per l’importanza che ha avuto fra la gente di Abbadia. Quest’albero ha salvato dalle carestie ed è stato essenziale per la sopravvivenza dei nostri avi fino a non molto tempo fa. Intorno al castagno ci sono girate conoscenze, tecniche di coltivazione, propagazione, ricette e tante altre storie. I nostri nonni che frequentavano la campagna sapevano distinguere le “razze” di castagno l’una dall’altra solo osservando il portamento e la corteccia, senza guardare il frutto che è considerato l’unico elemento distintivo.

I castagneti dell’Amiata furono apprezzati anche da Papa Pio II che durante il suo soggiorno al monastero riceveva ufficialmente gli ambasciatori e teneva la Segnatura proprio all’ombra di un grandissimo castagno, quando non preferiva le rive di un ruscello immerso nella rigogliosa vegetazione (esiste ancora oggi il toponimo “fosso del Papa”). A testimonianza del fatto fu posto il modesto e forse poco apprezzato monumento che recentemente è stato spostato davanti all’abbazia il quale riporta l’epigrafe: <<Pio II, Pontefice Massimo, fuggendo gli ardori estivi di Roma, allettato dall’ombra dei castagni, qui dettava le sue costituzioni e riceveva gli ambasciatori, nell’anno del signore 1462 >>.

Il grande Umanista e Pontefice ha scritto nei suoi commentari le parole più belle che siano mai state riportate sulla nostra montagna; è stato, usando un linguaggio moderno, il migliore e più accreditato recensore che si possa desiderare. E’ curioso pensare che nei suoi commentari si trova anche scritto: <<Qui è il soggiorno dei beati, laggiù il supplizio dei dannati >> con riferimento alla Val d’Orcia (che oggi è patrimonio Unesco), mentre l’Amiata, “il soggiorno dei beati”, è considerata inferiore soprattutto da molti suoi abitanti che ormai hanno perso la capacità di vedere la bellezza sotto al velo sporco con cui è stata avvolta.

Oggi le maggiori esigenze di legna accompagnate alla scarsa attenzione a ciò che rappresenta l’Amiata a livello di biodiversità e di ecosistemi, non permettono più a tanti castagni (forse a nessuno) di diventare giganti secolari come quello sotto il quale sostava Pio II e lasciano spazio a lavori forestali eseguiti con mezzi cingolati non eccessivamente rispettosi per il suolo e il sottobosco; lavori considerati senz’altro a norma ma non adatti a una montagna come la nostra, dalle caratteristiche ambientali uniche e molto delicate, perlomeno non con l’intensità e la frequenza con cui sono eseguiti. La nostra zona ha bisogno di una valorizzazione vera e di un maggiore riconoscimento, anche a livello legislativo, per proteggere le risorse e certe situazioni ambientali che vi sono presenti. Tutto ciò porterebbe vantaggi economici che finalmente si vedrebbero davvero.

Un’eccezione di bosco secolare ancora in piedi è data dalla “piana di Catarcione” dove sono presenti diversi esemplari di castagno dal diametro veramente notevole e dall’età indefinita. Ma il castagno non è l’unica pianta di importanza rilevante. Un ruolo di primo piano nella vita e nella cultura del paese ce l’ha avuto il faggio. Albero maestoso dalla bellezza indescrivibile che tende a formare boschi puri che ricoprono con vigore la montagna fino alla vetta. I faggi sono molto suggestivi, in certi casi possono quasi ricordare le colonne di una cattedrale che con le loro fronde formano i capitelli e le volte visto che tendono a unire le chiome facendo passare poca luce e questo spiega anche lo scarso sottobosco.

La faggeta dell’Amiata è una delle più grandi d’Europa ed è difficile che se ne trovino di più belle. Il nostro rapporto con il faggio dura da molto tempo perché è una pianta che si presta per vari scopi fra i quali il più importante era quello di scaldarsi in quanto ha un alto potere calorifero. All’inizio e per secoli la faggeta è appartenuta all’abbazia ma poi nel 1282, per prevenire invano una sommossa popolare, fu donata ai badenghi ormai sul piede di guerra e prossimi all’indipendenza assoluta dal monastero che avvenne nel 1293 con la proclamazione del diritto di eleggere i propri giudici, i quali fino a quel momento venivano scelti dall’Abate. Il carattere sagace e ribelle che ci portò a conquistare la faggeta, bene così prezioso per la comunità, ci fu d’aiuto cinque secoli dopo per difenderla dalla riforma leopoldina. Il Granduca Leopoldo di Toscana soppresse la nostra abbazia nel 1783 mentre la faggeta fu destinata ad essere venduta ai privati. Ma gli abbadenghi non ci stettero e a seguito di una serie di stratagemmi se la ripresero andando poi a costituire la magnifica “Società Macchia Faggeta”.

Questa società è un altro tassello importante della nostra storia ed è stata un esempio sia di unione che di gestione dei boschi. Oggi la “Macchia Faggeta” ha forse perso un po’ del suo significato originario ma rimane una società che, aldilà di qualche sbaglio fatto in un certo periodo, si sta impegnando per dare almeno al bosco di cui è proprietaria un valore che va oltre alla sola importanza produttiva, puntando alla massima sostenibilità, alla certificazione di qualità del legname e, in maniera crescente, alla valorizzazione della bellezza e dell’aspetto ricreativo-didattico. La soppressione leopoldina è stata la causa principale dello smarrimento identitario badengo perché tagliò le radici sulle quali il paese poggiava. Il paese fondato sull’abbazia se l’era vista far chiudere con la confisca (più che altro il saccheggio) del numero incalcolabile di codici e di testi fra i quali la preziosissima Bibbia Amiatina, senza contare le reliquie e altri oggetti inestimabili dei quali fummo rapinati.

La soppressione dell’abbazia determinò un grosso cambiamento fra i badenghi che si trovarono privati di qualcosa che fino a quel momento aveva condizionato gli avvenimenti più importanti del paese. Poi alla fine del XIX secolo cominciò il periodo minerario che stravolse le abitudini e gli stili di vita della gente. Con la miniera il nostro paese divenne all’avanguardia rispetto agli altri e il tipo di lavoro con la ricchezza che ci ha portato (comunque costata tanti morti e malati di silicosi) spinse ad abbandonare gradualmente le campagne, costruire case nuove trasferendo la centralità al di fuori dell’antico paese e comportando così un cambiamento dei modi di vivere fino ad allora rimasti invariati.

A poco a poco furono trascurati il bosco e le campagne e scomparvero tante abitudini e saperi che ci avevano contraddistinto fino a poco tempo prima. In altri paesi della montagna, come Arcidosso e Castel Del Piano, dove non c’è stata la miniera c’è una cultura più marcata del castagno, ci sono marroneti ancora in buono stato e la castagna oggi ha ottenuto il marchio DOP. Naturalmente la miniera da noi ha consentito la nascita di teatri, del cinema, della scuola di musica, di attività commerciali etc. ma adesso, a distanza di qualche decennio dalla sua chiusura, nel guardarci indietro dovremmo riuscire a ripristinare i contatti oltre che con la storia vicina (e in qualche modo ci siamo riusciti con il Parco Museo Minerario) anche con quella più antica. Il luogo da cui ripartire sono le scuole, bambini e ragazzi devono conoscere la storia locale così che quando saranno grandi sapranno distinguere, si spera più di noi, ciò che è bene da ciò che è male per il paese e per la montagna. Antonio Pacini

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foto: jc

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